mercoledì 28 settembre 2011

Baci dalla provincia

di Edo Chieregato

Articolo tratto dal n.13 - "Ragazzi selvaggi"

All’ultima Berlinale, il festival cinematografico della capitale tedesca, l’Italia era rappresentata unicamente dal film Provincia Meccanica di Stefano Mordini. Cosa simile era successa a Cannes, nel 2000, dove c’era solo il nostro fumettaro Lorenzo Mattotti, nemmeno un regista, che ne aveva disegnato il manifesto. Eppure sebbene senza pellicole, andò meglio a Cannes, che quest’anno a Berlino.
Provincia Meccanica
racconta la disgregazione progressiva del rapporto di una giovane coppia, ma non convince. Non è chiara l’apatia dietro ai personaggi, mancanti di uno scavo psicologico che motivi la deriva cui lentamente si spingono. Forse per Mordini ambientare la vicenda a Ravenna, esordire con una rustica festa di matrimonio, mostrare uno sfasciacarrozze, far vedere come tra operai ci si aiuti vicendevolmente, è sufficiente per dire che siamo in provincia, che c’è desolazione, e la gente reagisce così. E’ vero la provincia è meccanica, cioè automatica, prevedibile e quindi deprimente, ma nel film non emerge, semmai è dato come dogma. Mordini vuol mettere in scena uno spazio culturale, fisico e mentale, quale la provincia, senza una interpretazione, senza vera analisi. Ecco allora un film televisivo, a tratti patinato, falso. Pensando a Celati, ad esempio, che ha spesso preferito un intimismo minimalista, alla cruda cronaca quotidiana, per raccontare l’esistenza e i colori della pianura padana, ritroviamo un sobrio romantico, ma sincero. Nell’opera prima di Mordini non convince quasi niente, lo stereotipo comanda, si scade nel pittoresco. Non c’è sangue, manca il vissuto.
Se rimaniamo nel nostro giovane cinema, troviamo però il romano Matteo Garrone, che ispirandosi a fatti di cronaca, nei suoi ultimi due lungometraggi - costruiti attorno al tema della morbosità affettività di certe psicosi amorose - riflette anche sulla provincia, su personaggi che si dimenano tra ossessioni e inettitudine. I protagonisti de L’Imbalsamatore, sono disadattati che sognano la fuga da una vita sbiadita e opaca. Ma tutto è inutile, il trasferimento dalla desolazione del litorale campano in provincia di Caserta, alle nebbiose lande cremonesi non farà che degenerare le cose. Primo Amore ha invece la campagna veneta come scenario per l’irretimento che il folle protagonista infligge alla fidanzata. E’ un film di non luoghi, di vuoti, di ambienti smunti. C’è la percezione di una provincia inquietante, senza speranza, in cui il lavoro sembra essere l’unica possibilità di socializzazione. E non è un caso che il film sia stato scritto, e magistralmente interpretato, da Vitaliano Trevisan, scrittore operaio di Vicenza, caustico ma schietto, che soprattutto ne I quindicimila passi introduce la sua critica alla ristrettezza culturale del Nordest ricco e bigotto.
"Non più qui, pensai, non su questa terra devastata e calpestata e spezzettata a norma di legge, non su questa terra dove le ragioni di tutto sono ragioni prevalentemente, anzi: esclusivamente economiche, niente di personale, niente di niente: solo affari. Una terra desolata, pensavo, […] una terra sconvolta desolata e desolante, intristente come non mai specie nei giorni di pioggia, per non parlare dei giorni di nebbia" (1).
Garrone, Trevisan, mostrano quell’Italia che anche Gianni Pacinotti ama narrare. Gipi, questo il suo pseudonimo, è nato a Pisa, ha quarantadue anni, ed è ossessionato dall’esigenza di comunicare: fumetti, racconti, illustrazioni, riprese cinematografiche, canzoni, pittura, tutto va bene per farlo.
Ma col fumetto il suo talento si esprime al meglio, con maggiore consapevolezza, proprio perché mescola i diversi linguaggi con sempre nuove ricette. Dopo l’esperienza negativa del Liceo Artistico a Lucca, che lo porta a detestare il disegno, Gipi frequenta corsi privati in Italia e Spagna, e per tutto un periodo sperimenta febbrilmente ogni tecnica possibile. Lavora per la pubblicità, da metà degli anni Novanta, quasi per caso, inizia a pubblicare per "Cuore", e poi per "Il Clandestino", "Boxer" e "Blue", e sebbene la sua abilità pittorica e il guizzo narrativo siano evidenti da subito, la pubblicazione del primo libro è assai recente. La storia di Faccia, disegnata appena dopo il crollo delle torri, è la scintilla di un’esplosione creativa a fumetti impressionante, dirompente, in continua ricerca ed evoluzione, che ha portato alla pubblicazione di tre libri consecutivi (2), all’assegnazione di premi, all’attenzione di pubblico e critica, non solo del fumetto, non solo in Italia. Con Gipi possiamo parlare di un "dopo 11 settembre" personale, di una riappropriazione esistenziale del disegno, della necessità terapeutica del racconto, contro l’inquietudine per gli accadimenti terribili del mondo o della propria vita.
Nelle sue storie che spesso filtrano i caratteri o le gesta degli amici dell’adolescenza o le atmosfere della provincia in cui è cresciuto, la narrazione procede con naturalezza attraverso una scrittura limpida che fotografa e sintetizza gli accadimenti. E’ autobiografia, ma sebbene ci sia affetto per gli eroi in scena ed emotività tra le righe del racconto, lo sguardo sul passato è distaccato, le persone diventano personaggi, poiché l’obiettivo ultimo è pedagogico. Le immagini disegnate o dipinte con tecniche diverse (acrilico e china, acquerello, penna biro su carta), contribuiscono ad una fluidità di lettura che rispecchia la spontaneità dell’atto creativo, un raro talento che ricorda Pazienza. Il colore è steso in velocità con sicurezza ed istinto mentre i dialoghi sono diretti e crudi. Le vignette spesso non hanno alcun bordo per cui l’intera pagina ricrea un’immagine molto compatta, una sorta di mosaico a fumetti in cui l’occhio segue la narrazione.
Esterno notte è il primo libro del 2003 disegnato quasi sempre senza matite, e dipinto sul flusso del racconto con olio su supporti rigidi poi graffiati per rendere efficaci giochi di luce. In certi casi Gipi sovrappone anche della carta trasparente per disegnare volti o figure umane, si tratta di dissolvenze che suggeriscono il senso di movimento o una lettura a più livelli. Partendo dall’idea che le persone sono fatte di sostanze differenti dal mondo, l’autore disegna gli uomini con un segno scarno, quasi frettoloso, mentre gli ambienti, lo spazio, il cielo e le nuvole sono magniloquenti, dettati da macchie dalle tonalità di blu. Del libro sono almeno due le storie, in cui l’atmosfera, l’essenza, il destino di una vita in provincia emergono drammaticamente: Le cinque curve e La storia di Faccia.
La percezione del tempo e dello spazio in provincia sono correlati agli accadimenti. E il tempo sembra fermo, perché accade poco, e tutto, compreso il bizzarro, è prevedibile. Se lo spazio appare limitato perché immobile, il movimento è la variabile determinante. Si tratta spesso di moti interiori, di irrequietezza, di necessità di azione e cose. Ma il movimento può essere nei desideri, nella speranza di cambiamento, nelle parole, spesso vane. E così attraverso rituali che punteggiano il tempo, si traveste questo ristagno esistenziale che è oggettivo e culturale nello stesso tempo. Si esagera con tutto, con l’apparenza, col linguaggio, con la velocità, bluffando spesso con le proprie possibilità. Tondelli, acuto osservatore degli anni Ottanta, che ritorna spesso a riflettere sulle sue origini, sull’Emilia, ci può venire in aiuto. Quando parla di Modena, della tranquilla normalità dei giovani, della celebrazione dei riti del sabato sera, dell’uscita al bar, del giro in Vespa, sottolinea soprattutto l’ostentata emancipazione femminile, conquistata a fatica nei decenni, con l’andirivieni continuo alle macchine da maglieria. Una femminilità produttiva e indipendente, spavalda, in continuo movimento, che lo scrittore incarna nel simbolo di una vecchia Dyane rossa, con dentro cinque ragazze, provocanti e disinibite, che bruciano semafori e sensi unici per volare verso le grandi discoteche della pianura. E’ la terra, e sono gli anni, di "Vado al massimo", del desiderio di una vita esagerata, iperdinamica alla Steve McQueen, che dilaga ovunque. E’ il fenomeno Vasco Rossi che, come puntualizza Tondelli, non si può capire "senza tenere presente questa realtà emiliana, questi percorsi fra la città e la provincia, fra la metropoli e la sperduta cittadina dell’Appennino: percorsi che lanciano, naturalmente, il mito e il sogno all’interno di un’esistenza un po’ grigia e nebbiosa, ma pungolata continuamente dalla modernità e dalla ricerca dell’evasione" (3).
L’ossessione per il movimento, per la fuga, per lo spostarsi e dribblare la stasi appartengono alla provincia. Anche Thomas, il protagonista del romanzo di Trevisan cammina di continuo, ma non va da nessuna parte, naturalmente. Sentiamo questa testimonianza da Caserta: "E ci sono quei casertani che dopo aver fatto l’amore al macello, tornano a casa con una tristezza completa. Ciondolano per la stanza e giurano a se stessi che ne hanno le scatole piene di questa città. Arriverà quel giorno nel quale andranno via. Per alcuni di questi quel giorno non arriverà mai, ma proprio mai. E allora si comprano una moto, un Harley Davidson, e si uniscono con altri che ne posseggono già una. Indossano un casco e un giubbotto di pelle e tutti insieme, la domenica, se ne vanno. Se ne vanno, ma non lontano. Percorrono il Corso, via Gemito e ancora il Corso […] ogni volta che ripercorrono le vie sgassando, quei casertani sembrano dichiarare: un giorno o l’altro noi da qui ce ne andremo, lasceremo questi negozi, questi bar, questo ozio, questo strazio domenicale, lasceremo tutto questo
e poi saranno fatti vostri. Ma a giudicare dalla puntualità con la quale la domenica, il rumore della loro moto fa suonare un’antifurto, in verità, sempre lo stesso, tutti quelli che li guardano passare, pensano che quel giorno tarderà ad arrivare" (4).
Ancora movimento statico, illusione di cambiamento, progetti che sfumano non appena si formulano. E soprattutto desolazione, senso di vuoto, di niente, da riempire. La provincia è lenta, ferma. E così sale la smania, la fregola irrequieta per riempire questo niente. E bisogna darsi molto da fare. Si beve, ci si ubriaca, o droga, per accelerare. Credendo di riempire. Illudendosi di movimento, sebbene non accada niente, non si faccia niente per davvero. C’è poi una velocità vera, quella dei motori. Delle automobili sportive, delle gare in motocicletta. In provincia la velocità e la bravura nel guidare la moto sono un valore assoluto per conquistarsi stima e ammirazione al bar. Si fanno gare, per trasformare le curve in rettilinei. Gare da pazzi. Con piloti normali, che hanno una passione pericolosa. Si scelgono tracciati con molte curve, s’indossano soprannomi, si fanno scommesse. Il ritrovo è al bar, oppure dal distributore; si sceglie "la pista", e via. Ciò che conta è lo spirito della corsa, la cattiveria con cui si vuole chiudere la settimana. "Tutto viene affrontato con rabbia e, in alcuni punti difficili, senza respirare. […] E’ la stessa rabbia che sale dentro di loro quando decidono di correre perché davanti a sé hanno solo una domenica vuota" (5).
Se Le cinque curve di Gipi riflette sulla morte narrando proprio di queste gare spericolate, di motociclisti indemoniati, e dei ragazzini bisognosi di eroi, che mettono in repentaglio la loro vita per emularli; La storia di Faccia racconta di giovani emarginati che si scontrano con una guardia giurata, capro espiatorio della loro scontentezza esistenziale, svelando la rabbia, di chi non possiede nulla, di chi usa la violenza, forse gratuita, ma liberatoria. Disegnata senza sceneggiatura, di getto, la storia ha una scansione narrativa che avviene dentro le immagini di grande formato, dipinti ad olio a cui si alternato disegni non curati fatti con il pennarello. Se alcune vignette sembrano fotografie virate che si condensano in acquatiche macchie pittoriche, la tavola può contenere anche un lungo testo mozzafiato e circoscrivere il dettaglio visivo del narrato. E’una storia sul disagio, sulla complicità delle vicende di strada, sulle differenze sociali, sulla noia, sul potere del gruppo sulla volontà del singolo, sullo spaesamento, sui riti di iniziazione, sui patti di sangue, sull’amicizia perciò, e su esperienze che si imprimono come cicatrici, con allusioni ai primi anni Ottanta, alla cultura nichilista del punk, alla tossicodipendenza dilagante di quegli anni. Una storia sul destino, che l’autore riprende ne Gli Innocenti, racconto lento che sceglie vignette grandi, un disegno semplice, la leggerezza dell’acquerello, per suggerire ariosità alla narrazione, e raccontare dell’ineluttabilità della vita, del cambiamento e della crescita, così influenzabili anche dalle piccole cose del passato. Gipi sa comprendere la giusta tecnica per la storia da raccontare, senza troppe preoccupazioni per un bel disegno, ma piuttosto per una narrazione efficace. Con Gli Innocenti prende le distanze dal proprio vissuto, che ci mostra in bianco e nero con un segno rozzo ma verissimo, per soffermarsi sul rapporto tra un adulto sprovveduto e un bambino, sul dialogo, le smorfie, le incertezze, i silenzi, di questa tenera coppia.
Gipi è un grande narratore, quasi un sociologo, che fonde la secchezza dei testi con il linguaggio cinematografico, mantenendo una tensione sospesa tra descrizione del reale e riflessione intimista, attraverso inquadrature d’effetto, montaggio dinamico, dialoghi impeccabili, e una fotografia che modulando la luminosità calibra il tono drammatico.
Accanto alle storie di Gipi, in provincia, c’è di molto peggio. L’efferato assassinio di Pietro Maso nel veronese di quindici anni fa, che con la complicità degli amici massacrò a sprangate i genitori, è l’emblema di una cultura vuota, consumistica e opulenta. Questo ventenne glaciale che si cambiava d’abito più volte durante lo stesso giorno del processo, e che divenne un idolo per i ragazzi di quegli anni, è un paradigma attualissimo. Stiamo parlando di terre, e ci si potrebbe allargare dal Veneto a molte zone della Lombardia (6), in cui prospera la più florida ricchezza della nazione, ma che negli ultimi anni hanno assistito a molti delitti feroci. Pensiamo a Somma Lombardo, a Busto Arsizio, all’inquietante fenomeno del cosiddetto "satanismo varesotto" e alle vittime che ha seminato. Ma l’elenco delle atrocità sarebbe lungo, quando si parla di provincia infatti non c’è un sud o un nord, si parla di ambienti dove l’istruzione rimane spesso ai livelli dell’obbligo, dove un universitario è bollato come intellettuale, dove si pratica la cartomanzia e l’astrologia. Paesi in cui regna un campanilismo sfrenato, chiusi, gelosi delle tradizioni, che rincorrono la modernità. Gente che intende il prestigio sociale come benessere economico. Gente a cui un fidanzamento finito, un lavoro perso, una malattia, una denuncia, appaiono come un peso insostenibile, come un giudizio a morte, una mannaia che pende fuori dalla porta di casa.
Di questa provincia malsana Gipi, che non riesce a staccarsi dall’intensità del reale, spreme l’umanità. Le sue storie saporano di un pedigree consapevole e disincantato che fa riflettere e commuovere contemporaneamente. La sua grandezza risiede nella ricerca costante della verità, che ancor prima della sceneggiatura, del testo e dei dialoghi, delle espressioni e dei movimenti dei personaggi, ha lo sguardo come partenza. Se Thomas de I quindicimila passi ci rivela la ristrettezza della sua terra attraverso l’osservazione di case color cremino, dai condomini color nocciolina, dai residence che non sono mai gialli, ma giallini, mai verdi, ma verdini; Felix in Appunti per una storia di guerra di Gipi, riconosce il passato e pure il futuro delle persone dalle loro dita. E così l’autore si ritrova a riflettere su destino e differenze sociali in una storia che ha come sfondo una guerra fantasma. Gipi, in definitiva, ci insegna che lo sguardo necessario ad un disegnatore "è uno sguardo più attento di quello che serve per guardare un paio di Adidas in una vetrina" e nelle sue storie ci mostra che dentro al male c’è sempre il bene, e viceversa.

***

1 Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi, Torino, 2002. pp.29/30.
2 Esterno notte (2003), Appunti per una storia di guerra (2004), Gli innocenti (2005), tutti Coconino Press, Bologna.
3 Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano, 1990, p.79.
4 Antonio Pascale, da Caserta, "Lo straniero", n.3, primavera 1998, pp.263/264.
5 Michele Lupi, Racers, Feltrinelli, Milano, 2003, p.93.
6 cfr. Damiano Grasselli, Stragi lombarde (in famiglia), "Lo straniero", n.47, maggio 2004, pp.79/82.

martedì 27 settembre 2011

Perché scrivere per bambini

Perché scrivere per bambini
di Isaac Bashevis Singer

Dal discorso letto in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel

Ci sono cinquecento ragioni per le quali ho cominciato a scrivere per i bambini, ma risparmierò tempo menzionandone soltanto dieci.

1. I bambini leggono i libri, non le recensioni. Non gliene importa un fico secco dei critici.

2. I bambini non leggono per trovare se stessi.

3. Non leggono per liberarsi della colpa, per soddisfare la sete di ribellione, o sottrarsi all’alienazione.

4. Non sanno cosa farsene della psicologia.

5. Detestano la sociologia.

6. Non tentano di comprendere Kafka o il Finnegan’s Wake.

7. Credono ancora in Dio, famiglia, angeli, diavoli, streghe, folletti, logica, chiarezza, punteggiatura e altre cose altrettanto obsolete.

8. Amano le storie interessanti, non i commenti, i manuali o le note a pie’ di pagina.

9. Quando un libro è noioso, sbadigliano apertamente, senza vergogna o paura dell’autorità.

10. Non si aspettano che il loro scrittore favorito redima l’umanità. Giovani come sono, sanno che non è in suo potere. Solo gli adulti hanno simili illusioni puerili.

lunedì 26 settembre 2011

dal Blog di Prìncipi & Princípi

LUNEDÌ 26 SETTEMBRE 2011

Addio, Aquila della Notte!

Anche se è pleonastico e quasi stucchevole dirlo, la morte di Sergio Bonelli lascia un grande vuoto nell’editoria, nel mondo del fumetto, nella cultura italiana. Perché Bonelli era non solo l’editore di maggior successo del settore in italia, ma anche il trait d’union tra l’industria e la produzione intellettuale, tra le ragioni dell’una e dell’altra, capace di non rinunciare mai alle ragioni stesse che avevano dato vita, con suo padre, il miticoGian Luigi Bonelli a quel Tex, Aquila della Notte, che fin dagli anni quaranta si era schierato dalla parte della ragione e del diritto, senza guardare mai al colore della pelle.


Tex Willer e Kit Carson disegnati da Giovanni Ticci

I Bonelli, perché anche Sergio aveva partecipato a quell’avventura scrivendo molte storie di Tex con lo pseudonimo di Guido Nolitta (per non confondere la sua personalità con quella del ‘mitico’ padre), paladini dell’integrazione razziale ante litteram? Potrebbe anche dirsi così, ma ci piace soprattutto pensare che fossero paladini del buon senso, contrari all’arbitrio, alla violenza contro i più deboli, alla prevaricazione, all’affarismo.

Sergio Bonelli era stato anche autore della sua casa editrice, curando per molti anni le storie di Zagor e di Mister No. Gusto dell’avventura, del fantastico, un pizzico di anticonformismo, accuratezza dei particolari storici e dei riferimenti; queste le caratteristiche della sua scrittura, che aveva certo mutuato dal padre e che aveva cercato di trasmettere ai suoi collaboratori.

La squadra di Bonelli (negli anni si sono aggiunti ai titoli della casa editrice, Dylan Dog, Ken Parker, Nathan Never, Martin Mystere…) è stata, e ci auguriamo che continui ad essere, una delle scuderie italiane di fumettisti più seria e qualificata: si devono ricordare, a questo riguardo,Aurelio Galleppini (il primo disegnatore di Tex), Guglielmo Letteri, Giovanni Ticci, e poi, alla rinfusa, Fusco, Niccolò, Civitelli, Villa senza dimenticare gli apporti saltuari, vere e proprie dichiarazione d’affetto di molti altri grandissimi, quali Buzzelli, Milazzo, Magnus. Chi conobbe Sergio Bonelli ricorda il suo essere sempre ‘dalla parte degli autori’ e non solo dalla parte della sua impresa. Ci piace sottolineare questo aspetto.

Oggi Aquila della notte, lo Spirito con la scure, Lungo fucile, l’Indagatore dell’incubo e tutti gli altri personaggi delle sue storie, sono tristi. E noi siamo tristi con loro.